Primi anni 80. Produzione del Teatro Stabile di Genova.
Spettacolo: “La Donna Serpente”. Di Carlo Gozzi, per la regia di Egisto Marcucci.
Scene e costumi di Lele Luzzati.
Aiuto regista Ennio Coltorti.
Io ero arrivato al Teatro Stabile Stabile quell’anno, dopo che lo spettacolo era già andato in scena nelle stagioni precedenti.
Quella di cui parlo era una ripresa quindi, ma aveva la fortuna di poter andare in tournée in Russia e poi in Messico.
A Mosca siamo stati al teatro di Maiakowski. Il teatro della Satira.
A San Pietroburgo, che allora si chiamava ancora Leningrado, in quello dell’Università.
Una bella esperienza il potersi confrontare con sistemi tecnici diversi. Il pubblico apprezzava molto anche se lo spettacolo era recitato in un dialetto veneto antico che comunque, anche se di poco, restava più vicino all’italiano che al russo.
Un trionfo. Il pubblico in piedi a lungo alla fine di ogni rappresentazione. Oggi si direbbe standing ovation.
Tecnicamente ho vissuto dei momenti esaltanti.
Enormi strutture nei teatri russi, molto rappezzate invece in quelli messicani.
Le luci molto belle, di Piero Niego, una colonna del Teatro Stabile.
Bella esperienza soprattutto umana. Ho incontrato persone eccezionali che ancora considero amici, anche se sono passati tanti anni e con molti di loro ci siamo persi di vista.
Ma qui vorrei parlare solo di una parte di quella lunga esperienza.
Il viaggio da Leningrado a Guanajuato, destinazione messicana dove abbiamo partecipato al Festival Cervantino.
Dopo molto tempo a Mosca, ci siamo spostati a Leningrado. Viaggio in treno. Di notte.
Avevamo chiesto di poter viaggiare di giorno in modo da poter vedere un po’ di quello straordinario paese che è la Russia, ma niente. Al ritorno ci saremmo riusciti di sicuro. Ce l’aveva promesso anche Valiginsky.
Chi era Valiginsky? Ma il nostro controllo politico no?
Un signore elegante che non parlava italiano e che non ci ha lasciati mai un attimo. Pochi sorrisi. Tanti sguardi tipo “Dai che lo so che voi capitalisti puntate a fregarci eh“.
Lo avevamo battezzato Valiginsky perché aveva sempre con se una valigetta. Una ventiquattrore che non lasciava mai. Chissà qual era il suo vero nome.
Misterioso il contenuto della ventiquattrore fino all’ultimo giorno quando un paio di noi l’hanno distratto e altri fra cui io, sono andati ad aprire ‘sta cavolo di valigetta.
E lì abbiamo scoperto che dentro c’erano solo un paio di fogli bianchi e una penna biro.
Basta. Nient’altro.
Forse era solo quello che serve per scrivere i nomi dei cattivi boh. Ma allora c’era ancora Breznev, capirai.
Dopo le recite a Leningrado, siamo tornati indietro a Mosca. Finalmente avremmo potuto vedere le campagne russe viaggiando in treno di giorno.
Macché. Pure il viaggio di ritorno fu di notte.
“Un disguido” ci fece dire Valiginsky dagli interpreti. Non ci ha creduto nessuno ma ormai… Ci siamo consolati con tante tazze di un tè buonissimo, bollente, spremuto da preziosi “samovar“.
Insomma il programma del viaggio prevedeva:
Leningrado Mosca in treno. 8 ore.
Poi 5 ore di tempo libero nella capitale per cercare di spendere la montagna di rubli che avevamo in saccoccia e che non potevamo portare in Italia.
Ci pagavano tanto rispetto alle paghe normali di un lavoratore russo. Ma soprattutto non potevamo spendere nulla. Non c’era niente da comprare. Siamo tornati in occidente con una gran voglia di vetrine luminose e colorate, anche solo da guardare.
Vietato esportare rubli, ma tanto era inutile. Non avremmo trovato il modo di cambiarli.
Io sono riuscito a spenderne un po’ comprando una fisarmonica che ancora ho a casa. Lo strumento musicale più caro del negozio.
Il resto dei rubli, un bel pacchetto, li ho lasciati sopra un tavolo in aeroporto, sperando che li avrebbe presi qualcuno che ne aveva bisogno.
I nostri amici interpreti non li avevano voluti. Secondo me per colpa di Valiginsky.
Altri colleghi si sono accodati a me nel negozio di strumenti musicali e dopo che erano finite le fisarmoniche, hanno cominciato a comprare tutto quello che c’era: Tromboni, violini, armoniche, chitarre. Niente balalaike perché costavano troppo poco.
Alla dogana ci hanno visto con tutti questi strumenti e un doganiere ha chiesto a me: “… che orchestra siete”?
“L’orchestra FISARMONICA di Genova” ho risposto.
Se ci avessero chiesto di suonare “Fra Martino campanaro” sarebbe stato un guaio.
Poi da Mosca era previsto un aereo fino a Vienna, scalo e cambio volo con uno per Milano.
Lì avremmo avuto uno spazio messo a disposizione da Alitalia per cambiare le valigie con i colbacchi e preso quelle con i sombreri che intanto erano arrivate da Genova con un corriere.
Poi da Milano volo per New York.
Altro cambio e nuovo volo per Città del Messico.
Da lì un pullman ci avrebbe portato a Guanajuato dopo altre faticose ore di viaggio.
Fino a Mosca tutto bene. Poi il volo per Vienna è partito in ritardo.
Persa la coincidenza per Milano.
Dormito a Vienna. Poco, perché gran parte della notte l’abbiamo passata alla ricerca di vetrine belle. Quando si dice “la capoccia“.
A Milano ad aspettarci in aeroporto per il cambio dei bagagli abbiamo avuto il corridoio che portava al gate del volo per New York, altro che spazio privato.
Valigie aperte, stracci da tutte le parti, buste di plastica, insomma abbiamo rappezzato e via di corsa vestiti come Fantozzi in vacanza, sul volo per gli USA prima di perdere pure quello.
Relax a bordo. Più che altro siamo svenuti.
All’arrivo All’aeroporto JFK di New York City, un musicista della nostra orchestra mi confessa che “…sono 48 ore che non riesco a fare pipì“.
“E io che ti posso fare”?
“Accompagnami al pronto soccorso. Almeno tu l’inglese un po’ lo conosci. Io per niente”.
A posto.
Io, lui e Massimo Lopez attore in quel periodo non ancora famoso come oggi.
Io e Massimo eravamo se non ricordo male, gli unici ad avere un po’ di dimestichezza con l’inglese e quando si viaggia, conoscere una lingua come quella aiuta parecchio.
Taxi, Pronto Soccorso americano. Puntura. Aspettiamo. Lo lasciamo tranquillo per un po’ al bagno mentre il nostro aereo era pronto a partire. Il pilota con la mano sulla leva del cambio aveva già messo la prima e tolto il freno a mano.
Il musicista ci riesce. Si capisce dal sospiro di sollievo che arriva dal bagno.
Via ancora di corsa: Taxi. Gate, aereo. In volo altra piccola dormita.
Finalmente si arriva a Città del Messico circa 48 ore dopo la partenza da Leningrado.
Gli interpreti messicani, fra cui una ragazza bellissima di cui non ricordo manco il nome, ci accolgono all’arrivo e ci chiedono perché non abbiamo preso il volo diretto Leningrado Città del Messico che sarebbe stato molto più comodo.
“L’organizzazione ha fatto così per spendere di meno”. Risponde uno dei nostri.
“E che ve ne frega a voi di spendere di meno? Paghiamo tutto noi. Trasporto di persone, bagagli e pure delle scenografie”.
Ci siamo tutti insieme voltati verso la persona che aveva intrattenuto contatti telefonici con i responsabili messicani. Sguardo di chi ha fatto un viaggio di 4 volte più lungo. 48 ore invece che 12.
Quella stessa persona aveva addirittura fatto costruire una seconda scenografia che era stata spedita mesi prima in nave.
Roba da matti.
Ma ormai eravamo lì ci aspettavano ancora solo un po’ di ore di pullman per arrivare alla splendida Guanajuato.
Mannaggia. Gran fatica, ma un viaggione e un’esperienza irripetibile.
Nella foto io sono quello accucciato. Il terzo da sinistra. Quello con i baffi e la mosca. E gli occhiali.
Adesso ho tagliato i baffi e gli occhiali non mi servono più.
Bravo Moreno, mi ricordo tutto.
Grazie per la foto pubblicata, non avevo nulla della compagnia.
Un abbraccio.
Paolo Gavelli