Mi ero riproposto nei giorni scorsi, di buttare giù qualcosa su quello che ricordo dell’evoluzione del mestiere di Direttore di Scena, oggi “di palcoscenico“, ispirato dal ricordo di un grande testimone di questo ruolo che si chiamava Pietro Pagnanelli.
Il passaggio è stato quello che parte dal “trovarobe” cioè quella persona che si incaricava di trovare nelle città dove la compagnia era a recitare, gli oggetti indispensabili per lo spettacolo.
Una brocca, un tavolo, qualche sedia, quadri da appendere alla scenografia, utensili vari, stoviglie e perfino il pollo o il pane da mangiare in scena se il copione lo richiede.
Insomma quello che ancora oggi si chiama “attrezzeria“. Tutto quello che non è scenografia, la quale rimane di competenza del “macchinista“.
Il trovarobe piano piano si è evoluto ed è diventato l’attrezzista. Un tecnico specializzato non solo nel trovare gli oggetti, ma anche a fabbricarli, spesso con strumenti anche semplici.
Veri artisti gli attrezzisti, che risolvono ogni problema che riguardi gli accessori di scena.
E proprio questa caratteristica di ottimo solutore, ha portato l’attrezzista a fare un gradino in più, trasformandosi in “direttore di scena“.
La persona che funziona da cerniera fra il reparto tecnico e quello artistico.
Il direttore di scena prende decisioni che riguardano la sfera “tecnica” dello spettacolo e le condivide con il responsabile artistico della compagnia che spesso coincide con il primo attore.
Uno dei maggiori direttori di scena italiani si chiamava Renato Morozzi. Veniva dalla Compagnia dei Giovani e aveva una professionalità molto alta riconosciuta da tutti. Un vero maestro.
IL maestro.
Magrissimo, un fascio di nervi, mai sorridente era soprannominato “cantinella” o anche “polverone” per la sua attitudine a fare un gran casino per risolvere i problemi.
Urla, sguardacci ma anche grande professionalità, erano i suoi utensili giornalieri.
Ne ho un ricordo emozionato. Girava per Spoleto a bordo di una vecchia Bianchina (quella di Fantozzi) sempre accompagnato dalla sua fedele compagna Vicky Margulis.
Americana che attraversava il palcoscenico del Teatro Nuovo di Spoleto, indossando un paio di stivali da Cow Boy (girl) ricamati e dal tacco rumoroso.
Lui, Morozzi, è stato il direttore di scena più significativo nei primi anni del Festival. Era qua forse dalla seconda edizione, quella del 1959.
Aveva tre vice. Amedeo Frati, Berto Capodaglio, Pietro Pagnanelli.
Quando per motivi di salute Renato saltò l’inizio di un Festival, la situazione fu gestita dai suoi tre assistenti.
Arrivò comunque Morozzi verso la fine della manifestazione e vedere che tutto andava avanti anche senza di lui, contribuì a gettarlo in uno stato in cui non si era mai visto.
Peccato. Non lo meritava.
Morozzi era quello che preferiva maestranze di Roma, perché le conosceva meglio. Gli spoletini rimanevano (rimanevamo) sempre in disparte. I “portatori d’acqua“.
Ma la vita va avanti e ci fu il momento in cui bisognava decidere chi avrebbe preso il posto di Renato Morozzi.
Si aprì una scaramuccia dalla quale fu subito escluso Berto Capodaglio. Un uomo buono, che giocava a fare il duro. Discendente della famiglia Capodaglio di cui anche l’attrice Wanda faceva parte.
Rimasero in gara Frati e Pagnanelli.
Il primo era un tecnico molto capace, con dei baffoni neri e grande passione per la tecnica teatrale. Aprì addirittura un museo che raccoglie testimonianze dei palcoscenici di tutta Italia.
Il secondo era un personaggio molto capace nello scegliere i collaboratori migliori, da inserire al posto giusto. Riusciva a delegare quando serviva e soprattutto era molto comunicativo e si trovava benissimo in società.
Tutto questo oltre ad essere anche un tecnico dall’esperienza lunghissima e dalle capacità di fantasia molto sviluppate.
Una di quelle persone che trovano la soluzione anche quando pare che non ci possa essere.
Vinse il secondo e per molti anni i tecnici del Festival di Spoleto fecero capo a lui. Era il periodo che tutti ricordano come “Il Grande Festival“.
Quello bello e pieno di proposte interessanti, spettacoli tecnicamente difficilissimi. Molto pubblico.
Con Pietro si cambiò strategia: da Roma a Spoleto. Lui decise di vivere tutto l’anno qua e scelse come responsabili dei vari settori, i migliori nomi che giravano a quel tempo in teatro.
Chiese di impiegare più tecnici locali possibile e cominciò a scegliere i nuovi lavoratori non per le segnalazioni del politicuccio di turno, ma per la capacità.
Siamo stati testimoni grazie a Pietro Pagnanelli, della rinascita della tecnica di palcoscenico, restituita agli spoletini capaci.
Adesso che osservo da fuori, ho l’impressione che la situazione sia cambiata di brutto.
Lascio aperti i commenti per chi vorrà correggere, aggiustare, integrare.
In primo Piano Renato Morozzi con una radio che negli anni 70 era all’avanguardia per le comunicazioni in teatro. Antenna infinita. Dietro con gli occhiali scuri, Pietro Pagnanelli.
In secondo piano Pietro Pagnanelli,. Davanti c’è Renato Morozzi. In Piazza Duomo durante l’istallazione della Conchiglia che adesso purtroppo non si monta più.
Ho conosciuto Renato Morozzi ad un festival del lontano 74 o75.Portato da da Berto Capodaglio stavo pitturando una valigia Morozzi mentre parlava con un altra persona mi disse che stavo sbagliando verso della pennellata….” ma come ha fatto ad accorgersene “pensai….
Era proprio lui allora. 😉
Caro Moreno, ci sono inesattezze che vorrei comunicartele quando ci incontreremo.
Quando vuoi. Se ti va scrivi anche qua, che il confronto quando si tratta di memorie lontane è fondamentale.
Grazie Moreno per questo riepilogo storico di questo affascinante .mondo del teatro e mi hai aiutato a risvegliare la mia sensibilita’ un po’ sopita da, mio malgrado, altre priorità del mio quotidiano. Conosco la tua passione per il teatro, attraverso qualche racconto di quando eri in Argentina e che, mi dìcono un mondo difficile per chi lo vive.
Mondo bellissimo secondo me. Magari ne parliamo dopo l’estate davanti a un bicchiere di vino. Rosso per me e Nero per te. Vedi che a volte è solo una questione di definizioni? 😉