di Pietro Biondi
“C’era una volta…”
Ragazzino. Mi piaceva tanto il biliardo! Cominciai a giocare un pò di contrabbando in Parrocchia (c’era un baretto interno, gestito dal signor Bizzarri). Nel cortile giocavamo a pallone (senza pallone, ma con palle rimediate, qualche volte con giornali ed elastici) il baretto era riservato agli “effettivi“. Nel baretto c’era un biliardo, un pò malandato, ma affascinante per me.
Quando fu l’ora, che emozione, potei entrarci e cominciare a giocare sul sognato biliardo. Presto diventai bravo lì dentro e il sogno diventò arrivare al Bar Giònso! Il bar al centro di “Borgo” (corso Garibaldi per gli ignoranti) Il bar Giònso era il covo del vizio! Giocatori di carte, cinque biliardi, liquori!
Entrare lì dentro voleva dire essere diventati adulti.
Il padrone, Giònso, era un veneto simpaticissimo, cordiale, lavoratore. Ma dentro il suo bar…allignava anche la…malavita locale.
Adesso farebbe ridere, ma anche allora. I pochi…malavitosi si limitavano ad essere semplicemente degli sfaccendati mantenuti dalle famiglie, uno aveva anche commesso un furtarello da quattro soldi, era stato qualche giorno in galera e sembrava Al Capone. Che tempi!
I Re della sala biliardi erano Chicchinu, detto “Lu Sindicu” (Il Sindaco, per gli ignoranti) e Lo Svinvero (non so ancora cosa significa, ignorante). Checco per la stecca e lo Svinvero per le boccette.
Lo Svinvero si diceva che fosse un bravissimo sarto, ma di vestiti ne avrà fatti pochissimi.
Checco, allora, aveva 83 anni e non aveva MAI lavorato in vita sua. Si alzava la mattina, piano piano scendeva al bar Giònso, andava a pranzo, tornava al bar e rimaneva lì fino alla chiusura. Aspettava clienti. E noi giovani volevamo imparare da lui (a me le boccette non interessavano). Lui stava seduto a guardare quelli che giocavano a carte, con il sigaro spento in bocca.
Ti avvicinavi timidamente, ti schiarivi la voce e dicevi: Facciamo una partita?Lui si girava, ti guardava da sopra gli occhiali, faceva una pausa, si lisciava i baffoni e rispondeva: Caffè e biliardo!
Tu dicevi: Certo!
Allora lui si alzava, piano piano, si dirigeva verso la sala biliardo, Giònso gli portava la stecca personale (che si era costruita da solo) chiusa dentro un astuccio che apriva con cura, e tirava fuori la mitica stecca.
Dava con cura il gesso (personale anche quello) e si cominciava a giocare. Gli tremavano le mani in modo impressionante, ma quando dava il colpo, non ne falliva uno.
E vinceva sempre lui. Si giocava il tempo per cui avevi rimediato i soldi. Gli dicevi grazie. Andavi a pagare e uscivi senza più una lira. A domani.
E così per qualche anno. Tu guardavi lui giocare e cercavi di imitarlo, di capire quello che faceva, come lo faceva e perché. Lui non ti insegnava niente, dovevi imparare da solo. Diceva solo: pensa sempre alla difesa!
Poi, un giorno…vincevi tu! Succedeva il finimondo. Tu dicevi: oggi il biliardo lo paghi tu!
Lui ti inseguiva intorno al biliardo per infilzarti con la stecca bestemmiando come un turco, urlandoti parolacce di ogni genere…
Ma tu eri in un’isola di felicità: Ho vinto! Ho vinto! Ho vinto!
E poi, magnanimo: Calma, Checchì, lo pago io, lo pago io lo stesso!
Allora si calmava, si sedeva e diceva: Anche lu caffè!
Ma era avvilito, abbacchiato…Aveva perso un altro allievo che, da domani sarebbe diventato indipendente e avrebbe giocato con lui alla pari…
Chicchìnu Lu Sindicu (Il Sindaco, per gli ignoranti).
Quanto mi piacerebbe rifare una partita con te.
Racconto copiato dal profilo Facebook di Pietro Biondi.
Pubblicato qua per non perdere questa perla.