Mi è capitato di entrare in contatto con una signora ugandese, capitata a Spoleto con le sue due figlie di 14 e 15 anni.
Era in un albergo della nostra città per incontrare un pezzo della sua storia.
Eccola:
Un prete missionario di Castel Ritaldi, è stato per 43 anni in Uganda, ha conosciuto i nonni di questa signora ed ha aiutato la sua mamma a partorire lei.
Con la sua macchina scassata, il sacerdote aiutava la popolazione di un piccolo villaggio, a raggiungere l’ospedale.
Se durante il tragitto la persona che accompagnava aveva una crisi, lui si fermava e si trasformava a seconda dei casi in ostetrico, aiutando la ragazza di turno a partorire, o in rianimatore, o in spalla su cui piangere.
La signora è riuscita a studiare grazie all’impegno del sacerdote umbro.
Si è in seguito trasferita in Francia, si è sposata, ha avuto due figlie.
Poi ha pensato di far conoscere le sue origini alle bambine, e allora ha deciso di tornare in Uganda per vivere l’atmosfera di quella terra.
Ha aperto nel paese africano un centro medico per assistere le persone colpite da AIDS, ha aiutato qualcuno a studiare, ha cercato di restituire un po’ della fortuna che le era stata regalata da bambina prima e da ragazza poi.
Ma non ha dimenticato a chi deve quello che è diventata.
Quindi ha preso un aereo, è venuta in Italia, a Spoleto, dove ha fatto base per tornare a salutare le persone che l’hanno aiutata senza chiedere nulla in cambio.
Il prete ormai purtroppo è scomparso, così lei è andata sulla sua tomba a pregare per ringraziarlo.
Ma sapendo che tutto il lavoro del sacerdote in Africa era reso possibile grazie al supporto economico e morale di alcune famiglie di Spoleto, è voluta andare a ringraziare la signora che lei considera una seconda madre.
Quella donna è ormai anziana e malata, ma…: “…so che non mi riconoscerà, ma io ci tengo ad andare ad abbracciarla e a ringraziarla per tutto quello che ha fatto per me e per la mia famiglia”.
Senza le condizioni favorite da queste persone speciali, non avrebbe potuto studiare e soprattutto non avrebbe avuto gli strumenti per aiutare la sua terra.
Io nel mio piccolo, sono contento di aver aiutato la signora ugandese a ritrovare la famiglia spoletina che l’ha aiutata.
E sono contento anche di aver incontrato una persona con questo raro senso di riconoscenza.
La signora africana parla un ottimo italiano. L’ha voluto imparare per poter comunicare con la famiglia spoletina.
Non è una bellissima storia dove i nomi sarebbero di troppo?