Avevo già lavorato come elettricista con il Teatro Eliseo per qualche anno, poi è bastato poco, pochissimo, per interrompere quella collaborazione che sembrava tanto solida.
Mi avevano lasciato “a piedi” come si dice, senza manco dirmelo in tempo per darmi l’opportunità di potermi organizzare bene.
Infatti quella stagione la feci con una produzione considerata minore, almeno in quel tempo: quella di Mario Chiocchio.
Uno spettacolo dal titolo “California Suite“, di Neil Simon, con la regia di Enrico Maria Salerno:
Interpreti: Renzo Palmer, Lauretta Masiero, Roberta Fregonese, e Gioacchino Maniscalco.
Scene di Gianfranco Padovani.
Tanti debutti, tanti chilometri, pochi soldi.
La firma del contratto fu a Roma. A casa dell’amministratore Gambini.
Quando si trattò di stabilire il compenso, cioè la paga giornaliera, mi disse: “Prima che decidi se stare con noi o no, ti voglio dire che… tu sei di Spoleto no? Ecco, allora l’allestimento di un paio di mesi lo faremo al teatro di Spoleto. Come si chiama che non mi ricordo“?
“Il Teatro Nuovo”, feci io.
“Ecco sì mi pare proprio quello. Tu abiti lontano da lì“?
“Macché, abito a 100 metri”.
“Allora ci verrai un po’ incontro sulla paga no“?
Lo stesso discorso lo fece al macchinista che invece abitava a Roma, sulla Tiburtina. Allestimento nel cinema sotto casa sua.
Il direttore di scena, invece sapeva che avremmo passato due mesi a paga piena nel quartiere della sua città in Abruzzo.
L’allestimento fu nelle Marche. A Tolentino. Lontano dalla casa di tutti.
Ma fu comunque molto piacevole per la presenza di Enrico Maria Salerno, un amico speciale come anche tutti gli altri attori.
Le luci erano disegnate da Mario Feliciangeli aiutato da suo nipote Rudy.
Mario era un omino minuto con una voce molto sottile.
Grande umanità e depositario di tante storie e tanti ricordi del teatro bello.
Quando si stabiliscono le paghe, ci si accorda anche sulle “Piazze“. Si chiede cioè quante saranno le città dove si farà spettacolo. Certo più o meno, ma un’idea si ha all’inizio perché il numero totale influisce sull’impegno e quindi sullo stipendio.
Gambini: “Ma le piazze sono sempre quelle: Roma, Bologna, Milano, Firenze, Palermo, Catania e non so se faremo anche al massimo un paio di debutti“.
I debutti sono quelle piazze da un giorno e via. Si arriva generalmente di notte, si comincia a montare la mattina molto presto, per tutto il giorno, poi la sera spettacolo e subito dopo smontaggio per poi ripartire alla volta della prossima città.
Ecco, se non ricordo male, le piazze furono 64. Roma all’inizio e Milano alla fine. In mezzo tutti debutti secchi o al massimo di due giorni.
Gli spostamenti erano con un furgoncino rosso ruggine preso a noleggio, con le ruote lisce.
Quando pioveva si metteva sempre di traverso anche in autostrada è successo più volte.
Con quel furgone siamo partiti per raggiungere una città pugliese vicina a quella dove eravamo. Una cinquantina di chilometri.
A metà strada il furgone ci ha abbandonato. Il motore proprio è morto.
Chiamato l’ACI, arriva un camion che ci ha caricati. Noi dentro il furgone messo sul carro attrezzi, ma al contrario rispetto al senso di marcia.
Così ci divertivamo a salutare le auto che seguivano e davamo anche indicazioni sul se e quando sorpassare.
Arrivati in officina abbiamo realizzato che invece di portarci nella cittadina di destinazione, l’autista pensando di farci un favore ci aveva riportati a quella di partenza. Giornataccia. Lunga e faticosa.
Con quel furgone preso a noleggio, ne succedevano almeno un paio al giorno. E mai una volta che la produzione avesse chiesto di farselo cambiare con uno buono.
Manco le gomme, giusto per essere un po’ più sicuri. Niente.
Mentre eravamo al Teatro Parioli, all’inizio della stagione, chiedevamo tutti i giorni quale sarebbe stata la prossima piazza. Niente. Nessuna risposta: “Ci stiamo lavorando“.
Partiti da Roma, ogni giorno si scopriva durante lo smontaggio, verso l’una di notte dove saremmo dovuti andare l’indomani.
Ogni sera una sorpresa. A volte 100 chilometri, altre pure 500. Una riffa continua.
I tecnici della compagnia erano abbastanza sgarrupati rispetto a quelli che avevo avuto la fortuna di frequentare fino all’anno prima.
Per gli attori che invece erano tutti molto bravi, abbiamo avuto una sorpresa appena partiti da Roma: Renzo Palmer era malato e non avrebbe potuto continuare la tournée.
E mo come facciamo? Cerchiamo un altro attore dello stesso livello?
Macché. Fu Mario Chiocchio, l’impresario, a sostituirlo in scena. Solo che non si poteva dire ai teatri, se non quando la sala era già piena di pubblico altrimenti la compagnia non sarebbe stata pagata.
Quindi tutte le volte a inventare scuse perché ormai la voce si era sparsa.
Comunque abbiamo fatto spettacolo dappertutto con Chiocchio che in gioventù era stato attore, poi aveva smesso per diventare produttore. In quella stagione avemmo modo di capire perché.
Tutta la vita della compagnia fu un nascondersi per non parlare della vicenda del povero Renzo Palmer, che era molto malato. I responsabili dei teatri che ci ospitavano cercavano di sapere notizie, ma noi ormai avevamo imparato e riuscivamo a svicolare come politici professionisti.
“Signor Chiocchio, avrei finito le lampadine dei proiettori. Se ne salta un’altra non so che metterci“.
“Non ti preoccupare. Tu allarga il raggio che tanto chi ci capisce oltre te“?
Ah sì? Dovevo allargare il raggio? Ma allora bastava montare meno roba no?
E così è andata: Una decina di proiettori per illuminare lo spettacolo invece della settantina previsti in allestimento.
Tanta fatica in meno, visto pure che quando riuscivo a incastrare tutto ricevevo sempre un “…ma chi te l’ha fatto fare“? Da parte del capocomico.
Lo strazio di questa stagione è finito a Milano. Al Teatro San Babila. Per l’occasione tornò a recitare pure Renzo Palmer. Sembravamo una compagnia normale.
Tanto per lasciarci un buon ricordo, l’ultimo giorno ci avvertirono che era uscita un’altra piazza: Montichiari. Vicino Brescia.
Siamo andati a fare anche lì lo spettacolo.
E non ci hanno manco pagati, con una scusa inverosimile, appellandosi ad una regola del contratto nazionale, che ovviamente non è mai esistita.
Ma la gioia di aver finito ci fece fare poche storie.
E ancora me lo ricordo.
Il varrozxone dei comici. Faticoso allora per te, affascinante oggi per noi che ti leggiamo. Daler