IL MIO CAPPOTTINO VECCHIO, CHE FINE HA FATTO?

Mi trovo ad assistere con una certa antipatica indifferenza alla polemica che da qualche giorno attraversa alcune testate nazionali.

La notizia trattata da bravi giornalisti è quella che riguarda il giro intorno agli abiti usati che le persone mettono nei cassonetti che siamo abituati a pensare siano gestiti dalla Caritas.

Scopriamo, grazie a questi servizi giornalistici, che nella maggior parte dei casi, non è la Caritas ad occuparsi di quegli abiti, ma altre organizzazioni che gestiscono il recupero, la sanificazione, la sistemazione ed il reinserimento nel mercato.

Cioè, io butto un vecchio cappotto, convinto che vada direttamente a persone che ne hanno bisogno, invece chi lo recupera, lo pulisce, lo sistema, poi lo rimette in vendita interessando tutta una grande rete di distribuzione e commercio.

Vedo i giornalisti e le persone intervistate, infastidite da questo giro strano che fa il mio vecchio cappotto.

Ma francamente, a noi, che ce ne frega se il cappotto viene accompagnato verso una nuova vita?

Queste organizzazioni, se seguono e rispettano con trasparenza le leggi italiane, quale danno ci fanno a noi?

Ovviamente la correttezza di tutta l’operazione va verificata visto che dagli articoli traspare un forte interesse di alcune organizzazioni criminali.

Ma se si scopre che tutto è regolare, magari quelli che si occupano di mettere di nuovo sul mercato gli abiti “buttati“, creano anche qualche posto di lavoro che potrebbe aiutare ad uscire dal disagio la persona a cui noi pensavamo sarebbe arrivato quel nostro capino che ci piaceva tanto e da cui ora siamo costretti a separarci ché ormai ci va stretto.

Poi la Caritas e tutte le associazioni di volontariato, che andrebbero maggiormente sostenute, continueranno a fare il loro fondamentale lavoro di supporto alle persone meno fortunate, ma se qualcuno si rivende il mio cappotto, a noi, che fastidio ci dà?

Boh, non sò… era così… giusto per riflettere, mentre guardo l’armadio che con l’occhio umido, mi chiede il terribile “cambio di stagione”.

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