Prima italiana dello spettacolo IN MY HEART’S EYE proposto dalla compagnia libanese Zoukak Theatre Company, vincitore del Premio Internazionale Ellen Stewart.
L’ho visto ieri sera ma ho preferito aspettare questa mattina per buttare giù qualche impressione.
Avrei rischiato a caldo, di essere forse troppo coinvolto ancora.
Ecco:
Era da parecchio tempo che non mi capitava di vedere uno di quegli spettacoli che una volta si definivano “teatro punitivo“.
Forse dagli anni ’70.
Nelle cantine romane dove sono nati molti dei maggiori registi di oggi.
Quelli del teatro contemporaneo.
Gli spettacoli dove lo spettatore guardava con insistenza la porta per uscire e andarsene all’aria aperta. Quando attraversare la sala per scappare provocava troppo imbarazzo in noi giovani amanti del teatro e si rimaneva sperando… “mo vedrai che migliora“.
L’esperienza al Cantiere Oberdan, mi ha riportato a quei tempi, quando si guardava il vicino cercando di capire se almeno lui/lei apprezzava l’esibizione.
In genere chi trovava piacevole la pièce era un parente. Spesso un genitore.
Per chi volesse provare di nuovo queste sensazioni vintage, per chi ha nostalgia di quei bei tempi andati, c’è la proposta de La Mama per il Festival.
Qui ieri sera di genitori non sembrava ce ne fossero in sala, ma di amici sì. Tanti.
Nessuno è uscito prima della fine dello spettacolo.
Nello spettacolo gli attori leggono, mentre passeggiano per il palcoscenico. Buttano i fogli letti.
Poi guardano con intenzione verso il pubblico con l’aria di chi: “…vedi che roba“?
Avoja se lo vedo, pare la risposta di PARTE del pubblico.
Parlano d’amore.
Tanto.
Poi si abbracciano, si sbaciucchiano, ridono, vanno dietro un paravento traslucido, invitano alcuni spettatori della prima fila ad entrare in scena, rompono un bicchiere di vetro chissà perché, poi puliscono, poi si rotolano per terra, poi urlano (forse per il vetro?) poi ridono.
Bevono pure ogni tanto, prima di rompere il bicchiere ovviamente.
Parlano veloce tanto che gli indispensabili soprattitoli vanno pure loro troppo di fretta.
Finisce con il pubblico invitato ad alzarsi in piedi per seguire le indicazioni (in italiano) per una specie di seduta di analisi di gruppo.
“Guarda il tuo vicino, fagli un sorriso, stringigli la mano, girati di là, torna a guardare di qua, pensa a una cosa bella, pensa a una cosa brutta, ricordati un amico, chiudi gli occhi (pericolosissimo, ma in piedi…) apri gli occhi, sorridi ancora…“Ho citato a memoria eh.
Mancava solo “scambiatevi il segno della pace“.
Insomma qui da noi dagli anni ’70 il teatro ha fatto parecchia strada.
La compagnia libanese pare dire che era meglio di no.
Meglio rimanere fermi lì dove stavamo.
E questo “lì” sta al Cantiere Oberdan di Spoleto.
Oggi ci rifanno.
In replica